L'angolo del Linguista pt. 5 |
a cura di
Kranpo |
25.7.2001
Bentornati, non finirò mai di scusarmi per la lentezza con la quale aggiorno questa rubrichetta, ma come
sapete i linguisti sono sempre tanto impegnati… bando alle ciance e torniamo a noi: qualche mese fa mi è
giunto un contributo riguardante il “Catoblepa”, creatura mitica di cui molto si è già parlato, visto
però che forse non tutti sono a conoscenza della sua natura e visto che l’intervento è estremamente valido
ed esaustivo, ecco a voi grazie a ravensclaw tutta la verità e soltanto la verità su questo essere leggendario:
Plinio (VIII, 32) narra che ai confini dell'Etiopia, non lontano dalle fonti del Nilo, abita il catoblepa,
"fiera di media statura e andatura pigra. La testa è di peso considerevole, e l'animale fa molta fatica a
portarla; la tiene sempre chinata a terra. Se non fosse per questa circostanza, il catoblepa annienterebbe
il genere umano, perché qualunque uomo gli vede gli occhi, cade morto."
Catoblepas, in greco, vuol dire "che guarda in basso". Cuvier stimò che fosse stato ispirato agli antichi
dallo gnù (contaminato col basilisco e con le gorgoni). In una delle ultime pagine della Tentazione di
Sant'Antonio si legge:
"Il catoblepa (bufalo nero, con una testa di maiale che gli ciondola fino a terra, attaccata com'è alle
spalle mediante un collo sottile, lungo e floscio come un budello vuoto. Sta appiattato nel fango, le zampe
appena visibili sotto la gran criniera di peli duri che gli copre il muso):
- Grosso, melanconico, fosco, me ne sto sempre così: a sentire sotto il ventre il tepore del fango. Ho
la testa così pesante che m'è impossibile tenerla alzata. La muovo lentamente attorno, e, a mascelle
socchiuse, strappo con la lingua le erbe velenose inumidite dal mio fiato. Una volta, mi sono divorato le
zampe senza accorgermene.
- Nessuno, Antonio, m'ha visto mai gli occhi; o chi li ha visti è morto. Se alzassi le palpebre, queste mie
palpebre rosate e gonfie, tu moriresti all'istante."
J. L. Borges, M. Guerrero "Manuale di zoologia fantastica".
Bene, per completare la puntata di oggi, invece dei soliti termini da me analizzati, vi riporto due chicche
davvero interessanti:
la prima è tratta dal libro di F. Romano “Laura Malipiero strega. Storie di malìe e sortilegi nel ‘600”, nel
quale a pagina 37 si legge:
“L’uso della cordella o delle FAVE è attestato nei processi di stregoneria veneziani del ‘500 […]. Il
possesso di cordelle o FAVE era ritenuto segno di stregoneria. Tra gli oggetti compromettenti che il marito
consegna al S. Uffizio nella sua denuncia di “stregarìa” contro Menega da Asolo (1590) c’è una FAVA (pare
si trattasse di un certo J.J. Phottontius… ndK), un pezzo di stringa rotta […]. Gettare FAVE benedette è tra
i sortilegi elencati nella “Pratica” di Desiderio, manuale dell’Inquisizione romana del ‘600”.
Devo aggiungere altro? Wow, mi vengono i brividi…
La seconda è la trascrizione del famosissimo “Detto Vurtagghijese” tipico di non so quale sperduta
regione meridionale…(lo so lo so, “l’uomo dai 12 soprannomi” mi ucciderà con le armi da lui predilette…cazzi
verdi e sguscianti ripieni di rane…ma tant’è…):
“No mishkàmu li skuércli cu li fàe” che il prode Gruppo ha così tradotto per il bene comune:
“Non mischiamo le bucce con le FAVE”.
Ah, quanta saggezza…grazie infinite Gnappo e onore alla Puglia!
Anche per oggi è tutto!
(continua... >>)
L'Angolo del Linguista
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